I partiti che si sentono minacciati dall’avanzata dei movimenti populisti hanno talvolta adottato una strategia comunicativa che insiste su paralleli con gli anni trenta e l’Olocausto. L’argomento è troppo serio perché sia lasciato alla strumentalizzazione politica. Non solo per il dovere di capire il passato, ma per la necessità di disporre gli strumenti culturali per evitare che si ripeta in futuro.

Per chi fosse interessato a capire i meccanismi che portano a un genocidio, un’ottima lettura è “The Killing Trap”, di Manus Midlarsky, edito dalla Cambridge University Press.

Midlarsky è Professore di Relazioni Internazionali alla Rutgers University e ha dedicato buona parte della sua attività di ricerca a esplorare le cause dei genocidi. Lo scopo dichiarato del suo libro è quello di individuare una serie di concause che scatenano una pulsione genocidaria all’interno di una società.

L’approccio di Modlarsky è quello dei casi comparati: considerare una serie di casi noti e cercare degli elementi comuni.

I casi considerati sono: l’Olocausto, il genocidio degli Armeni, il genocidio in Rwanda e, sebbene con un livello di approfondimento minore, la pulizia etnica in Bosnia. Incidentalmente, si noti che, sebbene Midlarsky si concentri sul ventesimo secolo, il genocidio non è, come sosteneva Baumann, un prodotto della modernità e non necessita di una società industrializzata per essere compiuto. Si pensi per esempio al caso del Rwanda, dove le uccisioni sono state compiute con machete e a forza di braccia.

Midlarsky individua una serie di condizioni che precorrono un percorso genocidario. Una premessa è d’obbligo. L’analisi esclude casi di uccisioni genocidarie all’interno di uno stesso gruppo, come per esempio il caso dei Kmer Rossi o dei kulaki. Una precisazione è d’obbligo. L’esclusione non avviene perché il carattere genocidario di questi eventi è negato da Midlarky, ma perché questi ritiene che la loro eziologia sia differente, che inserirli nel novero dei casi di studio sia scorretto metodologicamente e che richiedano quindi un trattamento a parte.

Per tornare alle condizioni individuate, la prima è una frattura etnica o religiosa, resa acuta da una dinamiche demografiche che alterano equilibri a sfavore di un gruppo. In altre parole, devono esistere due gruppi che distinti o che si percepiscono come tali.

Tipicamente, un gruppo si sente minacciato dall’aumento numerico dell’altro, per esempio dovuto a tassi di crescita demografici differenti o a un influsso massivo di immigrati. Nel caso del Rwanda, per esempio, la popolazione Hutu costituisce una maggioranza, ma che si sente esclusa e sfruttata da una minoranza Hutu che pero’ ha una rappresentanza maggioritaria negli strati alti della società. Questa situazione è in effetti il retaggio di politiche coloniali inglesi che adottarono l’etnica Tutzi come gruppo di riferimento per l’esercizio del potere coloniale sulla maggioranza Hutu. Tassi di crescita demografici diversi e la paura di trovarsi ad essere minoranza nello stato dell’altro sono anche alla base delle tensioni etniche degli anni ‘90 in Bosnia e Kossovo.

In secondo luogo, la popolazione che è destinata a intraprendere il percorso genocidario deve vedere la propria condizione economica deteriorarsi, per esempio per effetto di una crisi economica o di un conflitto in atto. Qui vale la pena di ricordare che il bacino di reclutamento per gli avventurieri politici che hanno soffiato sul fuoco della violenza etnica nella ex Yugoslavia era costituita dall’enorme numero di poveri e disoccupati causati dalle politiche di austerity imposte dal Fondo Monetario Internazionale.

Terzo, la violenza verso il gruppo vittima deve essere già stata introiettata come socialmente accettabile a causa di esperienze pregresse in cui essa non è stata repressa, ma tollerata. Per fare un esempio, la violenza verso gli Armeni o i Tutzi ha dei precedenti nei decenni successivi. Analogamente, la violenza contro gli ebrei è un dato presente e frequente nelle società dell’est europa negli nella prima metà del Novecento.

Quarto, la popolazione vittima deve essere priva di difese proprie o di un contesto internazionale pronto ad intervenire.

Queste quattro condizioni creano una miscela esplosiva di risentimenti etnici, rabbia e accettazione, nella cultura diffusa, della violenza sul gruppo vittima come opzione socialmente accettabile. Manca un la scintilla che dia fuoco alla miscela. Questa è appunto la quinta condizione: la popolazione che attuerà il genocidio deve subire una trauma collettivo dovuto a un evento catastrofico, in genere una grave sconfitta militare e la perdita di un territorio ritenuto parte fondante della propria identità. Traumi collettivi possono essere, nel caso degli Armeni, la presa d’atto che l’Impero Ottomano non sopravviverà alla prima guerra mondiale e la Turchia ne uscirà declassata a rando di debole stato nazionale. Nel caso dell’Olocausto, Midlarsky osserva come, contro ogni razionalità, l’impresa genocidaria accelera e si intensifica man mano che la sconfitta della Germania si palesa agli occhi dei gerarchi tedeschi. Anche nel caso dell’Italia, la persecuzione degli ebrei, secondo Midlarsky assume carattere decisamente genocidario a partire dal 1943, quando il regime fascista si trova amputato del proprio territorio e deve accettare l’ineluttabilità della sconfitta.

Il trauma si configura come evento scatenante, la scintilla che innesca l’incendio. A questo punto scatterebbe un transfer per cui la popolazione perpetrante rivolgerebbe le proprie ansie e le proprie frustrazioni contro la popolazione vittima. La popolazione vittima viene identificata come radice del male, che se rimossa consente di dare un senso alle sconfitte passate e le perdite subite.

In conclusione Midlarsky suggerisce che alterazioni degli equilibri etnici, condizioni economiche in rapido deterioramento e rapidi cambiamenti di confine sono una miscela altamente combustibile. Sebbene le condizioni attuali in Europa siano (per ora?) molto lontane dalle condizioni individuate da Midlarsky, la sua lezione dovrebbe essere considerata in prospettiva dai decisori politici.