Paolo Borchia, candidato per la “Lega Salvini Premier” nella circoscrizione Nord-Est (Veneto, Friuli Venezia-Giulia, Trentino Alto-Adige ed Emilia Romagna) alle prossime elezioni europee del 26 maggio, è il coordinatore federale di “Lega nel mondo”. 38 anni, di Verona, laureato in scienze politiche presso l’Università di Padova, dopo un’esperienza giovanile nell’impresa familiare di lavorazione del marmo, e dopo aver collaborato con una società nel settore dei servizi finanziari, nel 2010 si trasferisce al Parlamento europeo di Bruxelles come capo della segreteria dell’attuale ministro della Famiglia Lorenzo Fontana.
Nel dicembre 2013, in occasione del Congresso federale che porterà all’elezione di Matteo Salvini a Segretario della Lega, si dedica alle relazioni che sfoceranno nella creazione dell’alleanza identitaria con il Front National, l’FPOE, il PVV e il Vlaams Belang.
Dal 2016 inizia la sua esperienza come consigliere politico del gruppo ENF (Europe of Nations and Freedom), occupandosi del settore legislativo in ambito di industria, ricerca ed energia.
Lo abbiamo intervistato, nell’ambito di una serie di incontri con i candidati alle europee di tutti i partiti.
D. In questi cinque anni, secondo lei cosa avrebbe dovuto fare il Parlamento europeo e non ha fatto?
R. Avrebbe dovuto respingere una lunga serie di proposte legislative della Commissione all’insegna di un’eccessiva integrazione. In generale, avrebbe dovuto fare in modo che le nuove proposte di direttiva fossero riportate in linea con la lettera dei Trattati, in particolare il principio di sussidiarietà e proporzionalità: fissare genericamente un obiettivo o uno standard minimo e lasciare agli Stati membri la più ampia libertà di mezzi per raggiungerlo. Al contrario, ha operato per renderle ancora più dettagliate e stringenti. Risultato: più dirigismo tecnocratico, meno libertà, più burocrazia, più costi.
D. Cosa invece ha realizzato di positivo il Parlamento?
R. L’abolizione del roaming ha portato vantaggi ad una minoranza, ma sembra un risultato riduttivo.
D. Secondo lei il Parlamento europeo funziona bene così com’è oppure sarebbe necessaria una riforma che ne aumenti i poteri?
R. Questo è un simulacro di parlamento, dove i dibattiti sono poco più che simbolici, mentre l’iter legislativo è carsico: dopo una fugace apparizione in commissione parlamentare, il provvedimento si immerge per mesi, se non anni, nel segreto delle discussioni riservate tra i relatori dei gruppi politici e i lobbisti e dei “triloghi” tra Parlamento, Consiglio e Commissione, per poi riemergere a cose fatte: un testo preconfezionato e blindato che l’aula di Strasburgo dovrà prendere o lasciare. E, tranne rarissime eccezioni, “prende” a scatola chiusa.
Per renderlo più simile a un parlamento come comunemente lo concepiamo, dovrebbe essergli attribuito il potere d’iniziativa legislativa, se non altro parziale. Mi riferisco al potere di modificare o abrogare una legge europea vigente senza dover attendere che la Commissione, di grazia, presenti una proposta legislativa in tal senso.
D. L’Italia conta poco o molto in Europa? 
R. L’UE è concepita dai Trattati a immagine e somiglianza del modello socio-economico tedesco, di matrice ordoliberale e mercantilista, l’economia sociale di mercato fortemente competitiva. La Germania si fa forte dell’appoggio di un gruppo di Stati membri satellite e, quando le è necessario, sfrutta la sciocca accondiscendenza della Francia, alla quale, in cambio, viene concesso un certo laissez-faire per quanto riguarda i vincoli di bilancio e di conservare l’atteggiamento da grandeur.
D. Quale è stato il suo contributo all’Europa e all’Italia in questi anni?
R. Da funzionario del Parlamento Europeo ho cercato di declinare le proposte legislative della Commissione in maniera più efficace possibile per l’Italia, specialmente sul futuro quadro finanziario pluriennale.
D. Il Parlamento ha votato la riforma del Trattato di Dublino, che affronta il problema dei migranti, ma questa riforma non è operativa. Come giudica la riforma, e come mai c’è questa impasse?
R. Il Parlamento ha proposto di superare il principio del paese di primo arrivo introducendo un meccanismo obbligatorio e automatico di distribuzione dei richiedenti asilo tra tutti gli Stati membri, gestito a livello centralizzato dalla Commissione. Ha adottato questa posizione ideologica pur sapendo che non troverà mai l’appoggio del Consiglio (ossia dei governi degli Stati membri): ciò ha causato lo stallo. La redistribuzione automatica degli immigrati è un falso vantaggio per l’Italia, perché, come ribadito dal nostro Governo, si tradurrebbe in un potente fattore di attrazione di nuova immigrazione clandestina. Verosimilmente, sarà più facile aggirare il principio del paese di primo arrivo incrementando la protezione delle frontiere esterne: come sta dimostrando il nostro Governo, se il numero degli sbarchi viene di fatto azzerato, il problema della redistribuzione di fatto non si pone più. 

Fonte: “AISE”